
Il cervello si riorganizza quando c’è una perdita uditiva
I neuroni creano nuove connessioni per compensare una perdita uditiva. Questo meccanismo può però compromettere il funzionamento di impianti e protesi. Vediamo il perché.
Quando si perde l’udito, l’area cerebrale dedicata a questo senso, che cosa fa? Se lo sono chiesti un gruppo di ricercatori dell’Università del Colorado, scoprendo che non resta “disoccupata”: per via della vivace plasticità dei neuroni quella porzione di cervello diciamo che si “ricicla” e si dedica ad altri sensi. In particolare, il tatto e la vista. E la cosa può avvenire già quando la perdita d’udito è leggera, come all’inizio del processo di presbiacusia dovuta all’avanzare dell’età (l’equivalente, per gli occhi, della presbiopia). Ricordiamo che per neuroplasticità si intende la capacità delle cellule cerebrali (neuroni) di creare nuove connessioni tra loro e, dunque, nuove abilità compensatorie. Per localizzare dove, come e quanto ciò si verifica gli studiosi americani hanno sistemato 128 piccoli sensori sulla testa di adulti e bambini con sordità più o meno spiccata e, per controllo, di persone delle stesse età con udito normale, ottenendo encefalogrammi multipli che hanno registrato le onde cerebrale delle varie zone in risposta a stimolazioni acustiche.
Il cervello “compensa”
La dottoressa Anu Sharma, guida dell’équipe, e altri ricercatori avevano già osservato che le aree cerebrali dedicate a elaborare la vista o il tatto possono “reclutare” aree dedicate all’udito che non ricevano più stimoli uditivi causa sordità. Questo processo si chiama riorganizzazione corticale “cross-modal” e riflette una fondamentale proprietà del cervello, appunto di compensare in risposta agli stimoli ambientali. Ma questo fatto può influire sull’efficacia degli impianti cocleari, apparecchi che saltano le parti dell’orecchio danneggiate, per stimolare direttamente il nervo acustico, a sua volta connesso con la preposta area cerebrale. E se questa zona è stata in parte o completamente occupata da altre funzioni, è ovvio che l’apparecchio per quanto sofisticato non migliori la situazione.
Le ricerche dell’Università del Colorado hanno sottolineato quindi l’urgenza di proteggere le persone dalla riorganizzazione corticale fin nelle prime fasi del calo di udito dovuto all’età. La necessità di programmare dei test dell’udito a cominciare dalla mezza età o poco sopra. Una persona su tre che ha più di 60 anni ha problemi di udito, ma il disturbo è molto sottovalutato. Eppure può trascinare con sé un declino cognitivo. Sorride il professor Enrico Fagnani, che dirige l’Unità operativa di Audiologia della Fondazione Policlinico di Milano: «Si pensa che sia la vista, invece è l’udito il principale ingresso sensoriale del mondo esterno in noi, per cui crea modificazioni enormi a livello di reti neuronali centrali. Ormai è certo».
Con la perdita dell’udito, per età o altro, aggiunge Fagnani, si può verificare anche un calo delle funzioni cognitive superiori: memoria, elaborazione dei concetti, velocità di ragionamento. E gli apparecchi acustici, tanto pubblicizzati, servono “solo” a sentire o possono qualcosa contro la riorganizzazione delle aree destinate all’ascolto? «Va detto e ripetuto che gli apparecchi acustici costituiscono una terapia riabilitativa. Non servono solo a sentire, ma a capire quel che sento. Quindi sollecitano il ricrearsi delle connessioni neuronali indebolite o sparite. Il loro effetto più importante è risincronizzare le reti neuronali». Ecco dove sta la riabilitazione indotta dai moderni e molto piccoli “cornetti” acustici. Ma contro il loro uso persiste un forte tabù.
Fonte: fondazione veronesi